Non ho ancora avuto occasione di leggere, a tanti anni dalla scomparsa, una biografia di Raffaele Mattioli che arrivi a tracciarne un ritratto a tutto tondo. L’impresa è certamente difficile per via della sua ricca e complessa mente, sempre in azione tra diversi interessi, tra vivaci e diverse curiosità intellettuali.
Mattioli era troppe cose contemporaneamente, e fissarlo nel cliché, che lo farebbe sicuramente sorridere, di ?banchiere-umanista? è dopotutto assai superficiale, anche se mi è facile rivedere i suoi vari atteggiamenti nelle due funzioni, dietro la grande scrivania affollata di carte e di libri. Casomai ?umanista-banchiere?, come Benedetto Croce suggerisce in una dedica, anteponendo, appunto, l’umanista al banchiere: ?A Raffaele Mattioli, uomo di lettere e di cifre?. Per lui la banca era soprattutto esercizio di politica economica diretta al fine, che aveva sempre chiaro nella mente, dello sviluppo del Paese, come risulta a leggere le Relazioni ai bilanci della Commerciale, dal 1945 al 1971, che si trovano raccolti in due volumi. Mi è personalmente caro immaginare che il Mattioli giovane, da poco sbolliti gli entusiasmi per D’Annunzio – fu tentato dall’avventura fiumana –, sia stato contagiato dalla passione per la pratica dell’editoria dalla frequentazione di Piero Gobetti, a sua volta editore fertilissimo di consigli e di progetti editoriali: ristampe, nuove opere, nuove collane, riviste.
Racconta infatti Sergio Solmi, nelle sue memorie, di aver conosciuto Mattioli a Torino, in casa di Gobetti. Editore divenne in seguito, dirigendo la nuova serie de ?La Cultura?, rivista fondata da Cesare De Lollis, che ebbe tra i collaboratori Cajumi, Neri, Trompeo, Praz. Conclusa la vicenda de ?La Cultura?, Mattioli non riuscirà a staccarsi dalla carta e dagl’inchiostri. Attraverso Bacchelli conosce Giulio Preda e, probabilmente, lo incoraggia nella pubblicazione dei quattro volumetti della Raccolta poetica. A Scarpa e Preda, Mattioli offre il compito d’iniziare, sotto l’impresa di Officina Tipografica Gregoriana, una serie di classici italiani concepita ad imitazione (nel formato, nella legatura flessibile, nella carta sottilissima) della ?Pleiade? di Gallimard. Sono il Leopardi e il Manzoni, entrambi a cura di Bacchelli e Scarpa. Ma l’impresa ha presto termine. Finalmente, attraverso l’amicizia e il sostegno offerto a Riccardo Ricciardi, diventa editore in proprio, a pieno titolo: ambizione nutrita a lungo. Traccia il programma della grande collana, ?La Letteratura Italiana. Storia e Testi?, che dirigerà con la collaborazione di Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini. Finanziando anche con moderne macchine la neonata Stamperia Valdonega di Giovanni Mardersteig; discutendo con lui formato, caratteri, corpi, impaginazione, carta e legatura. Porta la sede della rinnovata Ricciardi a Milano e inizia la pubblicazione della collana nel 1951, con la silloge crociana. Da allora sono usciti più di cento volumi, molti dei quali sarebbero da citare come modelli esemplari, quali i Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, o i Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin. Scorrendo il catalogo s’incontrano, tra i curatori, i più bei nomi della cultura italiana. Non era il manager o il presidente della sua casa editrice, Mattioli, era un vero editore come Aldo.
Sceglieva i testi con i curatori, li consigliava nel loro lavoro, se era il caso li correggeva, leggeva manoscritti e bozze di stampa, scriveva, telefonava, in continuo contatto con i collaboratori e la tipografia. Ma oltre che editore in proprio, Mattioli fu l’eminenza tutt’altro che grigia dell’editoria italiana degli anni che vanno dal 1930 alla sua scomparsa, nel 1973. Nell’anticamera del suo studio, in banca, s’incontravano letterati, storici, poeti, da Bacchelli a Contini, da Saba a Montale, da Venturi a Chabod. Ed editori, dai maggiori ai minori. È noto che fu per molti anni il più ascoltato consigliere di Arnoldo Mondadori; che appoggiò Einaudi fin dagl’inizi; che sostenne Sansoni, consigliò l’Electa dai primi tempi. Per la ‘nuova’ Electa ispirò e finanziò la grande collana dei cataloghi dei musei milanesi, che fu all’origine della sua fortuna editoriale e della sua specializzazione in un campo che si è assai ampliato. Fece credito a Luciano Foà, quando inaugurò Adelphi, e appoggiò le iniziative di piccole case editrici, sempre aperto ad ascoltare e a risolvere, se gli era possibile, i problemi finanziari, ma soprattutto culturali di chi – e furono certo più di quelli che ho nominato – si dedicava con competenza e fervore alla carta stampata, ch’egli amava, si potrebbe dire, anche fisicamente.
La sola carta stampata che non fosse di suo gusto era quella delle banconote, che non voleva moltiplicare in misura tale da incoraggiare l’inflazione che aborriva. Tornava così, da umanista, banchiere, o, come meglio si dovrebbe dire, grand commis de l’Etat.
Alberto Vigevani
La febbre dei libri
Memorie di un libraio bibliofilo
Sellerio editore - Palermo